☛ Giornalista, scrittore e vice direttore della Caritas Italiana

 
Nato nel 1966 a Merano, oggi è vicedirettore della Caritas Italiana a Roma ed è stato a lungo caporedattore del settimanale cattolico altoatesino in lingua italiana Il Segno. Autore di fiabe, prosa e numerosi saggi, ha tratto la sua ispirazione da vari Paesi e culture. Da diversi decenni si occupa del bilinguismo e dell'identità culturale dell'Alto Adige, così come di protagonisti sconosciuti, lavoratori e persone emarginate.
Paolo Valente, in quale quartiere di Merano è cresciuto? Potrebbe condividere con noi qualche suo ricordo di allora? Chi erano i suoi compagni di classe?

Sono cresciuto a Maia Alta, tra cedri e fontane, vecchie residenze e castelli. Luoghi tranquilli, ricchi di una storia nascosta sotto le incrostazioni del presente. Ogni tanto emerge anche qualche edificio romano e si racconta che l’antica, magnifica città di Maia sia stata sepolta da una frana. È solo una leggenda, ma fa pensare a quante cose del nostro passato devono ancora venire alla luce. I miei genitori, entrambi maestri, insegnavano alla scuola elementare di lingua italiana, frequentata anche da noi bambini. I compagni erano, come noi, gente comune oppure figli di noti professionisti e ragazzini accolti nel vicino istituto Pastor Angelicus, aperto nel dopoguerra per dare un futuro agli orfani del conflitto. Maia Alta era un’isola felice, anche se a volte le famiglie italiane erano vissute e vivevano come un corpo estraneo. Piazza Fontana era un luogo variopinto: il lattaio di lingua italiana vicino all’orefice di lingua tedesca, di fronte all’artigiano gardenese. Famiglie residenti da secoli, altre arrivate in anni più recenti, da sud o da nord.


Torniamo un po' indietro nel tempo: la trasformazione di Merano in una località turistica per benestanti è avvenuta anche grazie al lavoro di muratori e carpentieri, molti dei quali provenivano dal Trentino e, in particolare, dalla Val di Fiemme, dalla Val di Non e dalla Valsugana. Quali erano le condizioni di lavoro e di vita di queste persone?

Merano si sviluppò come centro turistico dopo il fatidico anno del colera, il 1836, e poi soprattutto nella seconda metà dell’800. A promuovere questo processo virtuoso fu il sindaco Josef Valentin Haller. Così l’antica capitale del Tirolo risorgeva a nuova vita. C’è una Merano della quale non si legge nei libri di storia. È quella degli operai che la costruirono, pietra su pietra. I giornali socialisti dell’epoca raccontano delle due città, quella dei turisti che passeggiano sulle promenade e sui ponti del Passirio e quella dei lavoratori che sotto quei ponti cucinano la polenta quando è ora di pranzo.
Nel 1888 furono battezzati molti più bambini di genitori italofoni rispetto a vent'anni prima, come dimostrano i registri parrocchiali delle nascite. Erano principalmente figli di carpentieri, muratori, giardinieri o lavoratori a giornata. Com’è che questo cambiamento ha influenzato Merano negli anni successivi?

Da sempre Merano ha visto la presenza di persone di lingua romanza. Gli stessi conti di Tirolo/Gorizia erano scesi nella conca dalla contea di Venosta, allora in gran parte (proto)ladina. Crescendo, nel corso dell’800, Merano diventa sempre più una città bilingue. È una multicultura asimmetrica, spesso tenuta nascosta dalle voci ufficiali, dal momento che in quegli stessi anni nascono e crescono i nazionalismi etnocentrici e l’“inimicizia ereditaria” tra Austria e Italia conosce alti e bassi. I meranesi di lingua italiana sono per lo più operai e artigiani. Gente che lascia poche tracce. Si riuniscono nei sindacati socialisti o presso la chiesa dell’ospedale, dove nel 1898 fondano la prima “Società operaia”. La Merano plurilingue è la sintesi di tutte le chance e le contraddizioni legate a un mondo che, oggi più che mai, è destinato a essere una comunità plurale.


Analizzando quel periodo, oltre ai principali elementi che hanno reso Merano una città termale di fama mondiale, emergono anche altri dettagli, come le processioni guidate dai cattolici contro la costruzione di una chiesa evangelica. Come si risolse questa resistenza iniziale? Come possiamo immaginare la vita sociale e culturale di allora, separata o unita?

I cortei contro il culto evangelico furono soprattutto nel 1861, non solo a Merano, ma in tutto il Tirolo, dove non si tolleravano i provvedimenti imperiali che avevano concesso libertà alle confessioni non cattoliche. Anche l’antisemitismo era un fenomeno diffuso in tutto l’impero e per la verità non è scomparso nemmeno oggi. Ma a parte le proteste non ci furono gravi atti di violenza fino alla vigilia della Seconda guerra mondiale, con le leggi razziali fasciste e le deportazioni nazionalsocialiste. Merano si sviluppò piuttosto in senso cosmopolita, accettando la presenza di differenti tradizioni, culture, lingue, malgrado il contemporaneo prevalere dei nazionalismi che ebbero un loro culmine nella Prima guerra mondiale. D’altra parte, la vocazione turistica di Merano si fondava sull’ospitalità a forestieri che portavano con sé, oltre la loro cultura e religione, anche marchi, corone e sterline. Questo rese forse più facile la loro integrazione… Non pochi di loro, divenuti meranesi, contribuirono alla crescita della città.


Quasi nello stesso periodo, tra il 1870 e il 1918, a Merano ebbero luogo numerosi scioperi. Chi scioperava e quali erano le principali rivendicazioni? Si registrarono dei successi?

Attorno al 1870 nascono le prime organizzazioni professionali. La stagione degli scioperi comincia nel 1885 con quelli dei sarti, dei fabbri e dei falegnami. È del maggio 1895 il primo sciopero dei lavoratori edili che chiedono la giornata di dieci ore. Altre rivendicazioni riguardano i salari, le rappresentanze sindacali, il diritto di voto. Interessante notare che gli operai italiani e tedeschi (ma anche quelli di altre nazionalità) sono uniti nelle proteste e si tengono spesso comizi bilingui. Ci sono anche successi. Ad esempio, nel maggio 1907 un giornale titola: “Il trionfo del proletariato di Merano”. I lavoratori di diversi settori hanno ottenuto una serie di miglioramenti salariali e di orario. E i datori di lavoro riconoscono il Primo Maggio come un giorno di festa.
Lei ha trattato anche la vita di Don Giorgio Cristofolini, fondatore e primo direttore de Il Segno. Il “Vescovo di Nicastro” (come veniva chiamato visto che numerosi lavoratori arrivati negli anni ’50 del 1900 provenivano dal Sud Italia), si occupava delle problematiche dei lavoratori delle cave e delle miniere, gettava luce sui pericoli del nazionalismo e dava voce a chi non ne aveva. Perché Don Cristofolini aveva ragione quando diceva che quest'ultimo, per forza di cose, andava a creare dei problemi? Lei dove vede dei riscontri oggi?

Quando si dice – e si fa – la verità spesso si hanno dei problemi. In particolare, quando queste verità sono scomode per chi ha il potere di farti del male. Don Giorgio vedeva più lontano di altri suoi contemporanei. Questo può creare solitudine. I profeti non sono mai accolti volentieri. Don Giorgio ha avuto la fortuna di lavorare con un grande vescovo, Joseph Gargitter, un uomo che aveva una visione per la sua diocesi e che ha sacrificato il quieto vivere per il bene comune. Anche oggi ci sono sistemi di potere che eliminano le persone scomode. Anche oggi, più che mai, chi non appartiene al sistema, viene sputato fuori, trattato come elemento di scarto. Intolleranze e discriminazioni sono purtroppo presenti e pure il razzismo influenza ancora i comportamenti della gente, ad esempio quelli elettorali.


Torniamo ai tempi più bui della città, nel 1939, quando anche Juan Domingo Perón era a Merano. Cosa ci faceva esattamente lui qui?

Ufficialmente Péron era a Merano per un periodo di addestramento e istruzione. Oggi diremmo uno stage. In particolare avrebbe dovuto approfondire l’organizzazione delle truppe alpine. Ma in riva al Passirio, siamo nelle settimane in cui scoppia la Seconda guerra mondiale, il tenente colonnello argentino osserva soprattutto la situazione geopolitica, raccoglie e trasmette informazioni, tanto che le autorità italiane, insospettite, fanno in modo che sia trasferito ad Aosta dove, scrivono, “potrà studiare benissimo quanto concerne le truppe alpine”. Da Merano racconta all’addetto militare argentino di affari politico-diplomatici, ma anche di cose più futili: “Io sto facendo la cura dell’uva, che dicono a Merano sia meravigliosa. Sono un poco scettico con le ‘meraviglie curative’ e seguo questa pur essendo sicuro che non mi farà niente. D’altra parte, poiché non ho niente da curarmi, non avrò niente da pentirmi, a meno che io non debba pentirmi di aver mangiato due chili al giorno di un’uva così bella come questa”.


Nel 1944, nell'area delle caserme, le Forze Armate tedesche (Wehrmacht) costruirono un deposito per il materiale confiscato e un sottocampo del campo di transito di Bolzano, nel quale venivano deportati i prigionieri politici e i loro parenti (sia donne che uomini), per ragioni etniche o religiose. Due giovani donne, Albertina Brogliati ed Ernesta Sonego, riuscirono a fuggire. Dove si rifugiarono? Chi le aiutò? Cosa sa del periodo che trascorsero in questo campo satellite di Merano?

Il campo satellite fu allestito dapprima in una caserma di via Palade e poi nella caserma Bosin, dietro l’ippodromo. Erano campi di lavoro, pur sempre un piccolo ingranaggio del sistema concentrazionario del Terzo Reich. Prima o poi i prigionieri sarebbero stati tutti mandati nei KZ dell’Europa centrale. Le due ragazze, Albertina ed Ernesta, sono l’emblema della volontà di vivere, di andare oltre le difficoltà. Il Comune di Merano ha voluto conservare un tratto di quel muro che esse hanno scavalcato, attorno al Natale del 1944, per fuggire dal campo. Una fuga che è stata possibile grazie a famiglie meranesi che nascosero le due donne per alcuni giorni. Chi si occupò di loro e di tanti altri fu don Primo Michelotti, insegnante al Liceo classico e cappellano della chiesa di Santo Spirito. Forme di resistenza, non solo passiva, che sono un raggio di luce nel passato di Merano.
Nel 2004 ha scritto che Merano era una città “bella e addormentata”. Cosa è cambiato da allora? Cosa è migliorato e cosa è peggiorato?

Credo che Merano abbia preso maggiore coscienza della sua storia. Ha investito in cultura, in strutture turistiche di qualità – come le Terme e l’orto botanico – e ha via via valorizzato la sua autentica ricchezza che sono le differenze linguistiche, culturali, religiose. Merano è una piccola città europea “sul” confine in cui, come scrisse Stefan Zweig, “nulla stride e tutti gli opposti si risolvono armoniosamente. Il nord ed il sud, la città e la campagna, la Germania e l’Italia, tutti questi aspri contrasti si fondono placidamente e persino gli elementi più ostili sembrano qui concilianti e familiari”.


Sempre nel 2004, ha parlato dei tragici periodi della scomparsa della Merano cosmopolita, dovuta in parte ai suoi ospiti, e che ha toccato in particolar modo la diversità della popolazione. Cosa intende dire esattamente? Come vede questo sviluppo, oggi?

Mi riferivo in quell’articolo alla Merano degli anni tra il 1938 e il 1945. A seguito delle “leggi razziali” la vivace comunità ebraica fu ridotta al lumicino e chi restò fu deportato ad Auschwitz nel 1943. Nel 1939 furono allontanati molti stranieri residenti in città, come gli inglesi, e nel 1940, dopo il risultato devastante delle Opzioni, Merano cominciò a svuotarsi della componente di lingua tedesca. Ci vollero diversi decenni, nel dopoguerra, per recuperare l’anima perduta. Le guerre, le dittature, i nazionalismi, le amnesie sono i grandi nemici di Merano.


“L’amicodì a Guardachestrano”: nella sua storia vincitrice del Premio Merano Europa nel 2007, c'è una fontana del tempo e un giorno che regala tempo agli amici e all'amicizia. Secondo lei, dov’è che la nostra mancanza di tempo si manifesta in maniera più evidente, oggigiorno?

Crediamo di avere poco tempo perché siamo sommersi di informazioni e circondati di migliaia di possibilità. Saltiamo continuamente da una cosa all’altra. Una delle conseguenze è il “pensiero breve”. Facciamo fatica ad andare in profondità e a leggere un testo più lungo di una paginetta. Così spesso ci fidiamo di notizie che sono false, create ad arte per approfittarsene della nostra pigrizia mentale. La conseguenza peggiore è però che non ci prendiamo il tempo per noi stessi e soprattutto per gli altri. Andiamo di fretta, ma dove e con chi?


Come trova il tempo per scrivere?

In effetti l’impegno prima come direttore della Caritas diocesana e ora come vicedirettore della Caritas nazionale a Roma mi lascia poco respiro. Ma a Roma (e in giro per il mondo) ho la fortuna di occuparmi dello sviluppo della comunicazione e così posso continuare a scrivere e a farlo per una buona causa.


Qual è il posto in cui preferisce scrivere?

I luoghi sono importanti. In alcuni di essi si respira la storia o si sente l’eco di parole, urla, pianti e risate del passato che restano sospesi nell’aria. Molte cose le ho scritte in riva a un lago. Tante altre nel mio rifugio, nel seminterrato di un antico luogo di sofferenza e speranza (un ex sanatorio). Ho finito di lavorare al libro su Josef Mayr-Nusser, a fine ottobre del 2016, ad Assisi, un luogo dove anche i sassi parlano. Proprio in quei giorni l’Umbria fu scossa da un devastante terremoto.
Potrebbe spendere una parola (o più) sul suo lavoro come vice-direttore della Caritas Italiana a Roma, sui pro e i contro del pendolarismo, ecc.?

L’incarico di vicedirettore della Caritas nazionale lo vivo come un mettere al servizio la mia esperienza a un livello diverso che non quello provinciale o diocesano. È bello poter sostenere le persone che in tutto il Paese si fanno carico di chi è in situazioni di fragilità e di bisogno. Caritas Italiana accompagna quasi 220 Caritas diocesane che con 85.000 volontari e volontarie e con molti operatori e operatrici cercano di vedere le persone, di accompagnarle, di sviluppare percorsi di riscatto e azioni di advocacy. Ma soprattutto di esserci e di fare tutti insieme la propria parte. La Caritas nazionale è parte attiva della rete Caritas europea e di quella globale. Questo ci mette in relazione con mille altre realtà, tutte accomunate dalla volontà di promuovere il bene comune. Fare il pendolare tra Merano, dove vive la mia famiglia, e Roma, dove lavoro, non mi pesa molto. Mi trovo bene a Merano e anche a Roma. Merano fu definita “umbilicus Tyrolis” e Roma “caput mundi”: mi muovo tra la testa e l’ombelico, tra il centro e il confine, senza sapere bene quale sia l’uno e quale l’altro.


Cosa desidera per la "città sul confine", come l'ha definita una volta?

Definisco Merano la città “sul” confine perché Merano è davvero attraversata da un confine geologico (la linea Periadriatica che separa, o unisce, geologicamente parlando, Africa ed Europa) e in passato il Passirio segnò il limite tra le diocesi di Trento e di Coira e forse prima ancora tra le circoscrizioni romane. Il confine è il luogo che fa nascere le domande, che chiede di fermarsi o di andare oltre. Impone una scelta. A Merano auguro di vivere fino in fondo questa sua vocazione. Essere confine che unisce, fa incontrare, fa vivere la complessità.


Settembre 2024