Una fine pioggerellina e sprazzi di sole, la temperatura mite e una cerata in caso di pioggia più intensa. Ho preso Kira e siamo salite sul 213 che parte dalla stazione ferroviaria di Merano e giunge a Tel, dove inizia il sentiero della roggia di Lagundo. Il primo tratto di strada, diciamo fino alla piccola galleria, l’abbiamo fatto di corsa: tirava il guinzaglio come una pazza e poco le importava che a me interessasse guardare la vista sulla Valle dell’Adige, le belle villette e quei rettangolini di nuovo azzurri delle piscine scoperchiate dopo l’inverno, le colonne di pioggia sulle convalli in lontananza che giocano con la luce che di sbieco passa attraverso le nuvole. La nostra corsa, la mia a dire il vero, è terminata quando sono inciampata nei pressi di alcune case: distratta dalle piante messe in vendita da qualche bambino su un banchetto improvvisato, non avevo visto una radice sporgente e sono finita faccia a terra. Nulla di grave, assolutamente, ma nella caduta ho perso il guinzaglio e pure Kira, che non si è fermata a dimostrarmi la sua solidarietà. Il pensiero che potesse perdersi o combinare qualche guaio mi ha rimesso subito in piedi e di corsa per riprenderla. L’ho ritrovata qualche centinaio di metri più avanti, in questa curiosa situazione: entrata in un nodoso e contorto albero cavo, era rimasta incastrata con la fibbia del collare nei meandri del tronco. Un tronco straordinario e chissà quanto antico, da cui si dipartono rami ancora anch’essi nodosi e tortuosi. Il legno, per una qualche magia della natura, si mostra come avvitato su sé stesso in una sorta di danza. Strano come un albero possa prendere le forme della sua negazione, il fuoco.
Persa tra le forme del tronco, carezzata dal frusciare gentile di una pioggia che è fatta di fili d’acqua, mi ha ridestato lo scorrere rapido del guinzaglio tra i piedi. Kira, liberatasi da sola, aveva ricominciato la sua fuga. Senza nessuna voglia di rincorrerla, ho continuato il sentiero a lenti passi, non curandomi delle nuvole ormai plumbee e borbottanti che si chiudevano sopra la mia testa. Io sapevo che Kira sapeva che nella tasca avevo dei croccantini per lei. Mi è corsa incontro quando ormai ero prossima alla fine del Waalweg, con la lingua a penzoloni. Non mi sento più intelligente del mio cane, ma mi riconosco una più raffinata capacità di gestione delle risorse. Una piccola soddisfazione questa, durata fino a quando il viso rigato dalla pioggia mi ha fatto capire che il bambino che mi minacciava con l’ombrello dal finestrino dell’autobus, dopo che eravamo scese a Tel, voleva solo mostrarmi cosa avevo dimenticato sul sedile.
Lasciato il parcheggio di Avelengo imbocchiamo il sentiero 2A. Non abbiamo fatto colazione con la precisa intenzione di arrivare alla malga Wurzeralm con più fame possibile. Appena la strada si fa sentiero ed entra nel bosco, passato lo stagno, ci sembra di sentire un brusio in lontananza. Procedendo, il brusio si fa voce, prima indistinta e poi sempre più chiara: viene da un telefono appoggiato dietro un sasso. «...la fornitura è stata sbagliata, da noi e non da lei, lo capisco e mi scuso ancora. So benissimo che lei è sempre stato disponibile in ogni situazione…» dice una voce dall’altra parte del microfono. Una voce che sembra avere fiato infinito «...la stessa quantità ordinata l’anno scorso ci siamo accorti che non è sufficiente e i pacchetti dovrebbero essere da 12 e non da 10 pezzi…». Una voce irritante, ascoltando bene, dall’accento indistinguibile, che marca le R e le L come fossero doppie e che, lo vediamo sul display, parla da più di un’ora. Rapiti da questa cacofonia ritorniamo desti solo quando un tipo arriva e prende il telefono in mano: «L’avrei lasciato ancora lì» ci dice guardandoci «ma alla malga piove ed è meglio tornare a valle». Non sappiamo se fidarci di un bontempone simile e decidiamo di proseguire. L’incanto della malga sotto la pioggia ripaga ogni fatica.
Si guardano. Si sorridono. Spalancano le braccia e si abbracciano. Non si baciano, ma sembrano annusarsi tra collo e orecchio. Ora da distanza ravvicinata, fronte contro fronte, si guardano di nuovo. Finalmente forse si baciano, ma Anna guarda oltre un po’ per discrezione e un po’ perché ha un obiettivo preciso: arrivare prima di loro, che se ne stanno in mezzo al sentiero ad amoreggiare, in un punto preciso del prato che circonda la chiesetta di Sant’Ippolito. Un punto panoramico, che si affaccia a strapiombo sulla valle e le permette di guardare verso Avelengo. Da questa prospettiva, nei pomeriggi in cui dopo la pioggia il sole si riprende il suo posto, spesso si può ammirare l’arcobaleno. Forse oggi è la giornata giusta e, anche se ha i piedi freddi e umidi perché era meglio aspettare ancora un po’ per calzare i sandali, questo spettacolo lo vuole ammirare. L’arcobaleno, a dirla tutta, è un pretesto. Si è creata un rito da fare ogni primavera per, dice lei, creare un ponte per unirsi al passato. La collina di St. Hippolyt era frequentata già seimila anni fa, vi sorgeva un luogo di culto. In epoca romanica venne eretta una chiesetta, ricostruita in epoca gotica. Nel medioevo, pare che le streghe si riunissero qui per i loro sabba. Dicono che è un luogo energetico, sicuramente è un posto che ha molto da raccontare. Anna, da quella sporgenza a strapiombo, guarda lontano e cerca l’arcobaleno. Poi si siede su un sasso ancora un po’ umido, chiude gli occhi e respira profondamente. Si ascolta e per qualche istante nella sua testa non ci sono pensieri. Delle risa gioiose la riportano al presente, sono le due persone che si abbracciavano lungo il sentiero. Si gode la loro felicità come se fosse la sua e si sente connessa ad un meraviglioso adesso.
(Testo Merano Magazin 01/2024)